Pensioni, Filice (CGIL Verona): "Tfr trasformato in rendita? Riparte la giostra"

“Si ricomincia a parlare di pensioni con la pretesa di spacciare scorciatoie raffazzonate per soluzioni che vanno incontro agli interessi dei lavoratori. La proposta del Governo di utilizzare il Tfr per andare in pensione a 64 anni fa infatti ricadere per intero su lavoratori e lavoratrici il costo della flessibilità in uscita. In quanto salario differito, frutto del lavoro, il Tfr non può essere trasformato in un bancomat per coprire i proclami politici falliti. Come Spi e Cgil ribadiamo dunque la necessità di un riforma seria ed equa del sistema previdenziale che riconosca il lavoro di cura, la fatica dei mestieri usuranti, la precarietà dei giovani e i diritti dei lavoratori, non scorciatoie che scaricano tutto su chi lavora”.
Così Adriano Filice, segretario generale Spi Cgil Verona ribadisce la posizione dell’organizzazione sulla recente proposta del sottosegretario leghista Durigon, definita “nuova propaganda che punta a coprire la propaganda del passato in merito alle promesse di superare la riforma Fornero” e lo dimostra ricostruendo quanto accaduto a Verona negli ultimi anni.
LE QUOTE. Dal 2019 i governi hanno presentato le cosiddette “quote” come una via d’uscita anticipata verso la pensione, i cui criteri sono tuttavia diventati sempre più stringenti fino a svuotare di fatto queste misure della loro efficacia:
- Con Quota 100, in vigore fino al 2021, era possibile lasciare il lavoro a 62 anni con 38 anni di contributi. A Verona questo canale aveva permesso nell’ultimo anno (2021) a 1.674 lavoratrici e lavoratori di andare in pensione. Una misura con molti limiti e non strutturale, non a caso modificata rapidamente in peggio.
- Nel 2022 è arrivata Quota 102: due anni in più sull’età anagrafica, 64 invece di 62, mentre i contributi restavano 38 anni. La conseguenza è stata pesante e dimostra l’inefficacia del provvedimento: sempre a Verona, le uscite sono crollate a 77 in tutto l’anno, un calo del 95%. Segno che, se alzi troppo l’asticella, la misura diventa inaccessibile.
Dal 2023 si è passati a Quota 103: l’età è tornata a 62 anni, ma con 41 anni di contributi. Non solo: è stato introdotto anche un tetto all’importo della pensione, che penalizza soprattutto chi ha avuto retribuzioni più alte. Il risultato? A Verona le uscite sono risalite a 540, molto più che nel 2022 ma ancora una frazione rispetto al 2021.
OPZIONE DONNA. Il percorso di Opzione Donna è emblematico. Sin dall’inizio questa misura prevedeva il ricalcolo interamente contributivo della pensione, con una penalizzazione economica pesante che poteva arrivare anche al 20–30%. Nonostante ciò, per molte lavoratrici rappresentava l’unica via d’uscita compatibile con vite lavorative segnate da part-time, interruzioni e lavoro di cura. In questi casi, pur con assegni ridotti, la possibilità di anticipare era una possibilità che alcune donne sceglievano per motivazioni familiari o di lavoro.
Ma dal 2023 la situazione è peggiorata: la platea delle beneficiarie è stata drasticamente ristretta (caregiver, donne con invalidità, licenziate), i requisiti anagrafici sono stati innalzati a 60 anni (con riduzioni solo per chi ha figli), lasciando fuori la grande maggioranza delle lavoratrici. E i dati di Verona lo confermano: dalle 589 uscite del 2022 si è scesi a 358 nel 2023.
APE SOCIALE. L’Ape Sociale avrebbe dovuto rappresentare un sostegno ai lavoratori più fragili. Si tratta infatti di un anticipo pensionistico (di fatto un sussidio) destinato a traghettare alla pensione di vecchiaia chi ha svolto lavori gravosi, disoccupati di lunga durata, invalidi civili o caregiver familiari. Ma anche qui i limiti sono evidenti: l’importo massimo non può superare i 1.500 euro lordi al mese, senza tredicesima, e l’accesso resta vincolato a condizioni molto rigide. Per ottenerla bisogna avere almeno 63 anni e soprattutto occorre rientrare in categorie ben precise: disoccupati di lunga durata, caregiver che assistono un familiare con handicap grave, invalidi civili con almeno il 74% di invalidità, oppure addetti a lavori gravosi come edili, infermieri di sala operatoria, camionisti, facchini o operatori ecologici. Oltre all’età, sono richiesti anche molti anni di contributi: 30 anni per disoccupati, caregiver e invalidi; 36 anni per chi svolge lavori gravosi (ridotti a 32 solo per edili e ceramisti). Non basta: per i lavori pesanti bisogna anche dimostrare di averli svolti continuativamente negli ultimi anni, con vincoli temporali molto rigidi.
CONCLUSIONI. “Questa carrellata ci dice una cosa chiara – conclude Filice – non c’è mai stata una riforma organica e si è navigato a vista da un provvedimento spot ad un altro, cambiando di anno in anno e con un progressivo e deleterio peggioramento delle regole a a partire dagli evidenti limiti iniziali sempre a sfavore di lavoratori e lavoratrici, alimentando con ciò incertezza e diseguaglianza”.
“E’ anche per questo che come Sindacato non possiamo accettare l’ennesimo balletto di proposte che è iniziato in questi giorni, piene di propaganda ma nulle in termini di efficacia di provvedimenti che tutelino chi a versato per moltissimi anni i contributi”.
Come sindacato diciamo che serve una scelta diversa. Una riforma strutturale e stabile che: riconosca il valore del lavoro di cura delle donne, oggi di fatto cancellato; tenga conto dei lavori usuranti e gravosi, che non possono essere paragonati a mansioni leggere; affronti il tema dei buchi contributivi e delle carriere discontinue che hanno segnato la vita di tanti uomini e donne. I dati di Verona non sono numeri freddi: raccontano storie di lavoratori che avevano pensato di poter finalmente uscire, e che si sono ritrovati di fronte a nuove barriere. Non possiamo permettere che ogni anno si ricominci daccapo. È tempo di una riforma vera, equa e universale.