Taglio alla rivalutazione delle pensioni: in 10 anni tolti 774 milioni di euro a 60mila veronesi

“Da anni come Spi Cgil diciamo e dimostriamo che i pensionati vengono trattati come dei bancomat dai governi e che il taglio della rivalutazione delle pensioni medio-alte (cioè di almeno 4 o 5 l’importo del trattamento minimo) è una misura ingiusta, populista e recessiva. Ebbene, oggi ne abbiamo l’ennesima dimostrazione con uno studio del centro ricerche ‘Itinerari previdenziali’ il quale fornisce un calcolo di quanto è stato perso”. Così il segretario generale dello Spi Cgil Verona Adriano Filice riprende una criticità che si sviluppa da moltissimo tempo, portando ad esempio il caso concreto dei pensionati veronesi.
“Lo studio di Itinerari previdenziali calcola che la negazione del pieno recupero dell’inflazione ha costretto i pensionati italiani con un assegno di 4 o 5 volte il trattamento minimo (dai 2.200 ai 2.500 euro lordi pari a 1.500-1.700 euro netti) a rinunciare ad una intera annualità di pensione negli ultimi 14 anni. Per quanto riguarda, invece, i pensionati con assegno (sempre lordo) 10 volte il trattamento minimo (che nel 2025 è di 603,40 euro) si configura una perdita di potere di acquisto secca del 19% nel medesimo periodo” continua.
“Riportati sul territorio veronese, dove al 31/12/2023 ci sono circa 60 mila pensionati (su 240 mila) all’interno di questo range di reddito, significa un trasferimento di ricchezza - in gran parte generata da lavoro - dalle tasche dei pensionati alle casse dello Stato di ben 774 milioni negli ultimi 10 anni. Una vera e propria tassa che, si badi, non va a vantaggio dei pensionati più poveri, ma entra nelle disponibilità dell’esecutivo di turno che la usa a proprio piacimento, ultimamente per rottamazioni e altre misure che guardano con bonarietà a chi non paga per intero le tasse” sottolinea il segretario.
"Sì, perché spillare denaro sulla rivalutazione delle pensioni “alte” è una cattiva abitudine di tutti i governi di tutti i colori politici fin dal lontano 1984. Dopo l’abolizione della scala mobile (1992), a partire dal 1996 si contano ben 16 rivisitazioni delle norme che differenziano la rivalutazione delle pensioni per fasce o per scaglioni di reddito. Quella del governo Meloni del 2024 è soltanto l’ultima ma più pesante versione che trasferisce alle casse dello Stato qualcosa come 61 miliardi di euro dal 2023 al 2032 partendo da pensionati con reddito lordo mensile di 2.500 euro (pari a circa 1.900 euro netti)".
“E a chi continua ad affermare che un pensione di 2.300 euro lordi (1.500 netti) è troppo alta, bisogna ricordare che in un Paese dove il 17% dei contribuenti paga oltre il 60% dell’Irpef e delle altre imposte, i pensionati che oggi vengono tartassati sono quelli che durante la vita lavorativa hanno sopportato il grosso del carico fiscale e contributivo del Paese” rimarca Filice.
In conclusione, afferma Filice: “Verona si ritrova con decine di migliaia di pensionati colpiti dalla mancata rivalutazione, in larga parte quelli che hanno contribuito di più al sistema. Il dato aggregato (0,7 miliardi di euro in 10 anni) significa meno reddito disponibile per consumi, famiglie e sostegno economico ai figli/nipoti. L’effetto è particolarmente pesante perché le perdite non sono temporanee: si trascinano per sempre, riducendo stabilmente il potere d’acquisto”.