UNA BUONA SETTIMANA: quando due persone si amano e si abbracciano ci parlano di Dio

Dal Vangelo di Giovanni 3,16-18
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
Uno dei più grandi filosofi del novecento Ludwig Wittgenstein diceva:
“Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”.
Però diceva anche: “Io non credo in Dio, ma prego tutti i giorni. Per me pregare è cercare il senso della vita”.
Forse la meditazione e il silenzio è il modo migliore per affrontare le tante domande su Dio.
Dio non è una definizione. È invece una esperienza di vita.
La Bibbia ci parla di un Dio che ha creato il mondo, che ha creato l’uomo e che si prende cura dell’umanità.
Ma noi cristiani, quel poco che possiamo dire di Dio, lo sappiamo attraverso Gesù.
Quando Gesù ci parla di Dio non usa mai concetti filosofici, non ricorre mai ai numeri “uno e trino”.
Ci racconta invece di un padre che aveva due figli. Un padre che se sbagli non ti castiga, ma ti perdona. Usa immagini prese dalla vita.
Per Gesù, Dio è il Padre, che si prende cura di noi.
È il Figlio, che si fa uno di noi per indicarci la strada per imparare a vivere.
È lo Spirito, che è dentro di noi per aiutarci a vivere.
Per Gesù la Trinità non è un concetto da capire, ma un mistero da contemplare e da vivere.
Per dirci che Dio è amore, è relazione, è comunione, ci racconta un Dio che è Abbà-papà, che si fa Verbo-Parola, che è Ruha- la tenerezza del femminile.
Martin Buber diceva: “In principio è la relazione”.
Infatti ognuno di noi è il frutto di una relazione. Io ci sono perché mio padre e mia madre mi hanno dato la vita.
La filosofa Hannah Arendt aggiungeva: “la nostra identità, il nostro “io”, è un “io plurale”.
Ognuno di noi è un incrocio di relazioni, un incrocio di esperienze. Nessuno può pensarsi senza gli altri. Nessuno può esistere senza l’altro.
Che cosa vuol dire allora per noi credere in un Dio-Trinità?
Se anch’io sono relazione, se anche il mio “io” è plurale, anch’io se voglio realizzarmi devo vivere uno stile di vita “trinitario”. Cioè di comunione, di incontro, di dialogo.
Ecco perché la solitudine ci fa paura. Perché è contro la nostra natura.
Ecco perché quando riusciamo a vivere amicizie e relazioni belle e profonde stiamo bene. Perché ci sentiamo realizzati.
Là dove non c’è rispetto, dove non c’è accoglienza dell’altro, non ci può essere spazio per Dio.
Uno che non rispetta il diverso, non rispetta Dio.
Credere allora nel Dio-Trinità vuol dire credere che l’amicizia tra le persone diventa il luogo privilegiato per fare esperienza del mistero di Dio.
Vuol dire credere che Dio è là dove ci sono delle persone che si vogliono bene.
La Trinità non è un dogma da spiegare. È uno stile di vita da realizzare.