la Redazione

Impresa femminile: aggiornare la definizione per avere maggiori opportunità

Riscrivere la definizione di “impresa femminile” per rispondere alle esigenze dell’economia reale e per cogliere le opportunità offerte in particolare dalla Missione 5 del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) che prevede finanziamenti in supporto della formazione e dell’incidenza femminile in Italia. Questo il tema del convegno “1992-2021. È tempo di riscrivere l’impresa femminile. La nostra proposta di legge” che si è tenuto sabato a Palazzo della Gran Guardia ed è stato organizzato dal Gruppo APIDonne Confimi Verona, in collaborazione con il Gruppo Donne di Confimi Industria e il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Verona. L’evento rientra nell’ambito delle iniziative promosse dall'Assessorato alle Pari opportunità del Comune di Verona in occasione della Giornata Mondiale per l'eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre).

A precedere l’incontro, moderato dalla giornalista Simonetta Chesini, sono stati gli indirizzi di saluto di Francesca Briani, assessore alle Pari opportunità del Comune di Verona, di Federica Mirandola, presidente di APIDonne e di Giovanni Meruzzi, direttore vicario del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’ateneo scaligero. Sono oltre 1 milione e 300 mila le imprese femminili in Italia, circa 1 su 5 (dati Unioncamere), ma potrebbero essere molte di più. A denunciare quanto queste percentuali siano penalizzanti è stato il Gruppo Donne di Confimi Industria, promotore di una Proposta di Legge per favorire le imprenditrici che si occupano attivamente della gestione d’impresa. Sfida al centro del dibattito organizzato da APIDonne. 
«Aver presentato una Proposta di Legge che ridefinisca i confini di cosa sia “impresa femminile” è di certo un traguardo importante per il Gruppo Donne di Confimi Industria. In pochi mesi, siamo partite a giugno, abbiamo raccolto non solo l'interesse di tutte le forze politiche, ma abbiamo raggiunto l'obiettivo: la PDL è stata depositata con la firma dell’On. Elena Murelli e presentata alla Camera dei Deputati a settembre», ha spiegato Vincenza Frasca, presidente nazionale del Gruppo Donne Imprenditrici Confimi Industria.

«Abbiamo voluto ampliare una definizione ferma al 1992, non più rispondente della struttura economica e produttiva italiana. Un’estensione che valga come riconoscimento per l'impegno che ogni giorno le donne a capo di un'azienda mettono nel far crescere la propria realtà contribuendo alla ricchezza dell'intera comunità sociale e territoriale», ha proseguito. Ma c'è di più: «La proposta ripercorre esattamente le linee guida del Governo che all'interno della scorsa Legge di Bilancio e del PNRR ha reputato necessario inserire risorse destinate all’empowerment femminile, alle imprese cosiddette “rosa”, alla formazione continua e scientifica delle donne. Ci piace pensare di contribuire con il nostro lavoro al raggiungimento di obiettivi comuni e perché no comunitari». Nella proposta si interviene anche in termini di inclusione ed equità, nell’ottica di soddisfare l’obiettivo governativo di oltre 700 nuove aziende femminili entro il 2024 e 2.400 nel 2026.

Secondo la Legge 215/92 è considerata impresa femminile la società cooperativa e la società di persone, costituita in misura non inferiore al 60% da donne, e la società di capitali le cui quote di partecipazione spettino in misura non inferiore ai 2/3 a donne e i cui organi di amministrazione siano costituiti per almeno i 2/3 da donne.

«Parametri troppo limitativi rispetto alla realtà dell’attuale panorama imprenditoriale femminile. Cercando di fare degli esempi concreti, erano poche le donne che, alla luce della vecchia disposizione, potevano dirsi effettivamente imprenditrici femminili, mentre la realtà socio-economica rappresentava una fattispecie molto più estesa», ha evidenziato Andrea Caprara, professore di Diritto commerciale del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’ateneo scaligero. «Per incentivare la nascita di imprese femminili e sostenere quelle già esistenti attraverso una serie di strumenti, previsti nel PDL, era importante ridefinire il concetto di impresa femminile per renderlo più vicino alla realtà socio-economica esistente – ha aggiunto –. In quest’ottica, si è pensato di valorizzare non soltanto l’aspetto proprietario, ma di contestualizzare, alla luce delle modalità di organizzazione delle imprese sia individuali che collettive, la partecipazione effettiva delle donne alla governance».

Se è corretto mantenere il concetto di quota maggioritaria, è opportuno riconoscere come imprese femminili le società cooperative e le società di persone, costituite in misura non inferiore al 51% da donne e le società di capitali le cui quote di partecipazione spettino in misura non inferiore al 51% a donne e/o i cui organi di amministrazione siano costituiti per almeno il 51% da donne. Con questo cambiamento, per esempio, nel manifatturiero le imprese femminili crescerebbero dal 14 al 33%.

«Nessun settore è precluso alle imprenditrici», ha sottolineato Chiara Faccioli, funzionario dell’Ufficio Relazioni industriali di Apindustria Confimi Verona, elencando la varietà di ambiti in cui esse declinano l’impegno. «Tutte le esperienze di queste grandi persone hanno come comune denominatore la capacità di portare avanti un'azienda anche da sole, nonostante in alcuni casi vicissitudini purtroppo drammatiche, prendendo decisioni e facendosi carico di tantissime responsabilità, compresa quella di mantenere i livelli occupazionali e quindi altrettante famiglie quando le operazioni più semplici potevano essere altre», ha segnalato. Donne che si sono ritrovate a combattere contro atteggiamenti reticenti nel momento in cui, ad esempio, sono subentrate nella gestione dell’impresa di famiglia: «Dimostrare di essere all'altezza è costato sforzo e duro lavoro quotidiano, senza mai abbassare la guardia. Non dimenticando né perdendo mai di vista l'importanza degli investimenti in formazione, nella continua ricerca, nello sviluppo e aggiornamento dei processi tecnologici uniti alla massima cura e attenzione per ogni singolo processo produttivo, per mantenere sempre alti i parametri di qualità e soddisfazione dei clienti».

Il percorso professionale portato ad esempio è stato quello di Chiara Maffioli, imprenditrice veronese: da cinque anni amministratore delegato della società fondata dal padre negli anni Sessanta, lo Scatolificio Maffioli & Turrina, in precedenza avvocato donna che ha esercitato tra Milano e Roma. «Oggi sono una delle rarissime CEO – ha rimarcato –. Meno del 5% degli amministratori delegati è donna e questa percentuale così modesta è il riflesso dell’enorme disequilibrio tra uomini e donne che nel 2021 sussiste nel mondo del lavoro». Quale valore aggiunto può dare la presenza di un’imprenditrice? «Può comprendere e praticare, soprattutto nell’impresa, che non c’è organizzazione e gestione sostenibile senza relazione e valorizzazione di legami. E questo le donne sono naturalmente portate a farlo: sono brave nel dare valore ai legami e nella condivisione dei valori in cui credono». Questione di cultura che deve appartenere a chi si occupa di imprese: «Chi le guida si deve sentire parte responsabile di questo costante processo educativo che guarda al futuro – ha concluso la manager – Così possono essere un luogo straordinario per sperimentare l’umanità».